«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?»

Con queste parole, Adriano Olivetti, parlava ai lavoratori nel suo discorso di inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli nel 1955.

Cosa è rimasto oggi di quel pensiero? Chi era Olivetti, cosa ci ha lasciato in eredità?

Noi, come tanti altri, consideriamo Adriano Olivetti (11 Aprile 1901 – 27 Febbraio 1960) un imprenditore visionario, da leggere, studiare e a cui ispirarsi. L’incredibilità della figura di Olivetti non è solo frutto del suo essere manager a 360 gradi, del design rivoluzionario dei suoi prodotti o dei suoi showroom conosciuti in tutto il mondo, ma soprattutto del suo modo avanguardistico con cui concepisce il lavoro dei propri dipendenti, i prodotti e la loro comunicazione. 

Avanguardia stilistica degli store

L’Olivetti store al 584 di 5th Avenue, apparve mezzo secolo prima dei più noti Apple store; un negozio in cui non si comprava nulla, ma un vero e proprio showroom intriso di arte e bellezza in cui chi entrava poteva visionare e provare i prodotti dell’azienda e, al tempo stesso, godere della bellezza dell’arte in diverse forme e sfaccettature: architettura, opere d’arte e prodotti di design esposti proprio nel cuore di New York.

Al noto, ma non più esistente store Americano, seguirono il negozio di Venezia e Parigi, che sottolinearono lo stile unico e inconfondibile di Olivetti e l’amore per l’architettura e l’arte. Nessun negozio all’epoca si avvicinava nemmeno lontanamente al loro concept: una concreta manifestazione dello stile unico dell’azienda.

Avanguardia stilistica dei prodotti 

In Olivetti, le scelte estetiche erano importanti quanto le scelte tecnologiche: la bellezza dei prodotti, non era fine a sé stessa, ma ogni curva, tasto, colore, veniva giustificato e comunicato per mettere l’utilizzatore a proprio agio.

Il designer eliminava tutti gli orpelli e le ambiguità delle macchine da scrivere precedenti e restituiva all’utilizzatore finale un prodotto in grado di svolgere perfettamente il suo ruolo primario, rendendolo un oggetto pratico, bello da vedere e possedere. 

Olivetti e la nuova visione dell’azienda

Se il bello e la funzionalità erano colonne portanti delle attività di Olivetti, anche le persone avevano uno straordinario ruolo. Gli stabilimenti Olivetti erano in assoluto i più innovativi di quegli anni: bellissimi, funzionali, dotati di mense, biblioteche e asili nido, luoghi in cui i dipendenti godevano di ogni assistenza e comfort.

Olivetti, infatti, voleva far diventare la fabbrica parte del territorio per farlo crescere economicamente e culturalmente. L’azienda aveva forti interessi sociali, incoraggiava i lavoratori a seguire attività extra-lavorative legate allo sport, al volontariato alla famiglia e alla cultura. 

La convinzione era che un dipendente felice e soddisfatto potesse trarre enormi benefici in termini di autostima, buonumore, abilità, capacità, di resistenza allo stress, ottimismo e maggiore efficacia sul posto di lavoro.

Olivetti insomma, era convinto che il fine ultimo dell’azienda non fosse solo il profitto, ma anche la crescita e lo sviluppo dei propri lavoratori.

Cosa ci lascia Olivetti

Olivetti ci lascia un patrimonio immenso legato al design e all’architettura, al modo di intendere tutto lo sviluppo del prodotto, la sua comunicazione, la sua messa sul mercato, ci lascia un pensiero ancora attuale sul modo di rapportarsi con il lavoro e con i lavoratori.

Le parole di Adriano Olivetti, nonostante i cambiamenti, la spettacolarizzazione della vita imprenditoriale, la corsa al profitto, oggi, più che mai, sembrano ancora dare una visione moderna, incoerente con il pensiero comune e diffuso. Ieri come oggi, ragioniamo di nuovo sul significato del nostro lavoro, che non può essere solo sussistenza, ma deve essere soprattutto, partecipazione e vocazione. L’impresa, insomma, deve costruire una realtà viva con i lavoratori e il territorio. Può quindi l’industria darsi dei fini?

«Possiamo rispondere che c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni […] Senza la consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa.».